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You are here: Home / News / Il costo della rivolta contro i test Invalsi

16 Maggio 2014 By Alessandro

Il costo della rivolta contro i test Invalsi

tratto da Repubblica.it

di TITO BOERI

SOLO a settembre sapremo quali sono le conseguenze della “rivolta” contro i test Invalsi nelle scuole superiori, quanti esami sono stati consegnati in bianco, quanti studenti hanno disertato le prove. Sapremo anche quanti docenti hanno permesso che i loro studenti copiassero gli uni dagli altri, rendendo il test di apprendimento del tutto inutile. Ma è tempo già ora di organizzare la rivolta di coloro che pagheranno il costo di queste “agitazioni”: i docenti, a partire da chi si è visto invalidare il test sulla propria materia da un collega che magari non li ha neanche informati della sua intenzione di boicottare l’esame, gli studenti e le loro famiglie. La rivolta contro l’invalidazione degli Invalsi dovrebbe andare ben al di là della difesa di queste prove. Come tutti i test, anche gli Invalsi sono perfettibili, a partire dalle modalità con cui vengono svolte e valutate le prove. Ci devono essere ispettori che controllino che agli studenti non venga permesso di copiare e i risultati devono essere valutati da docenti diversi da quelli degli allievi che hanno sostenuto la prova, che hanno tutti gli incentivi a far fare bella figura ai propri studenti. Bisognerebbe, al contempo, raccogliere informazioni sugli studenti assenti alle prove in modo tale da dissuadere gli istituti dall’incoraggiare assenze selettive degli studenti con le performance peggiori. A questo punto i risultati dei test potrebbero essere resi pubblici, scuola per scuola senza
timore di fornire segnali fuorvianti alle famiglie. Che devono comunque chiedere alle scuole informazioni aggiuntive rispetto ai test. 

Ad esempio, nell’era di Internet ogni docente dovrebbe affiggere sulla pagina web della scuola una nota in cui descrive a grandi linee come intende organizzare il programma di insegnamento e illustrare i propri metodi didattici e criteri di valutazione. Il nostro sistema scolastico permette alle famiglie, soprattutto nelle grandi città, di scegliere la scuola a cui iscrivere i propri figli. Ci sono vincoli in questa scelta, ma molto meno che in altri paesi, dove l’iscrizione è dettata unicamente dalla residenza. Questa maggiore possibilità di scelta dovrebbe fondarsi su informazioni adeguate sul valore aggiunto offerto dai diversi istituti alla formazione di chi si prepara per il mondo del lavoro. Invece paradossalmente in Italia ci sono meno informazioni che altrove sui contenuti formativi dei programmi didattici, sugli sbocchi professionali e sull’accesso all’università dei diplomati nei diversi istituti. A cosa si deve questo paradosso? 

Ci sono sicuramente barriere di natura ideologica ad ogni tipo di valutazione svolta dall’esterno. C’ è poco da argomentare contro i pregiudizi. Bene ricordare un vecchio adagio popolare: “se non ti poni il problema di misurare una cosa, significa che quella cosa per te non ha alcun valore”. Chi non vuole misurare la qualità
dell’istruzione, non assegna alcuna importanza alla scuola. C’ è poi il rifiuto dei test standardizzati. Molti docenti ritengono che solo loro siano in grado di definire parametri di valutazione adeguati, che tengano conto della specificità del loro programma di insegnamento. La ragione ultima, talvolta inconsapevole, di queste obiezioni è che chi viene valutato vorrebbe sempre costruirsi il proprio test. Quelli standardizzati servono proprio ad evitare che i docenti scelgano di adottare criteri di valutazione favorevoli ai propri studenti, dunque a se stessi. E permettono di svolgere comparazioni del livello di apprendimento prima e dopo l’operato di un docente, oltre che fra classi e scuole diverse. Ci sono poi i timori di alcuni docenti che la valutazione possa ritorcersi contro di loro. Nel caso dei bravi docenti sono paure del tutto infondate: i miglioramenti compiuti dagli studenti nelle loro materie vengono ben monitorati da questi test che, non a caso, sono in genere molto coerenti fra di loro.

Non è neanche vero che le prove distolgano le scuole dal perseguimento dei programmi didattici inducendole a preparare gli studenti per i test, anziché perseguire i programmi didattici. Le conoscenze che i test intendono valutare sono parte integrante degli standard minimi educativi. E non è affatto detto che il cosiddetto “teaching to the test”, insegnamento finalizzato a una migliore performance nel test, sia efficace. Ma forse gli ostacoli
più forti al miglioramento delle informazioni sulla qualità del nostro sistema scolastico vengono dalla politica. Senza questi dati non è possibile valutare le tante piccole modifiche, più di facciata che di sostanza, apportate da ministri che vogliono solo apporre una bandierina, mostrare di avere fatto una “riforma” che immancabilmente porta il loro nome. La mancanza di valutazione rafforza la discrezionalità della politica. Può fare tutti i cambiamenti che vuole, magari definendoli sperimentali. Tanto poi non ci sarà nessuno in grado di valutarne gli effetti. 

I test standardizzati permettono di valutare queste pseudo-riforme. Ad esempio, uno studio condotto da Erich Battistin, Ilaria Covizzi e Antonio Schizzerotto dell’Irvapp di Trento e basato proprio sui test Invalsi ha dimostrato che il ripristino dei cosiddetti esami a settembre (al posto del recupero dei debiti formativi in corso d’anno) ha accentuato le differenze quanto a conoscenze linguistiche tra studenti liceali e studenti di scuole
tecnico-professionali, peggiorando la qualità dell’istruzione soprattutto per chi viene da famiglie con redditi più bassi. Chi oggi rifiuta le valutazioni in nome dell’egualitarismo dovrebbe riflettere su questo risultato. Senza le informazioni offerte dai test standardizzati la battaglia contro la scuola di classe rischia di avere le armi spuntate.

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